Il Cinque Maggio di Alessandro Manzoni

Il Cinque Maggio, 1821.

Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,

muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
nè sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.

Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sonito
mista la sua non ha:

vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al subito
sparir di tanto raggio:
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.

Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;

tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,

la reggia e il tristo esiglio:
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.

Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.

E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.

Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;

tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!

E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio,
e il celere ubbidir.

Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò: ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;

e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desidéri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.

Bella Immortal! Benefica
fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
chè più superba altezza
al disonor del Golgota
giammai non si chinò.

Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.

 

 

Il Cinque Maggio di Alessandro Manzoni è un’ode civile composta di getto dopo che a Milano giunse (il 16 luglio) la notizia della morte di Napoleone. L’ode ebbe un enorme successo in Italia e all’estero e fu tradotta in tedesco da Goethe e in altre lingue. È tuttora ritenuta, nonostante la forma talvolta grezza, la più bella poesia scritta in onore di Napoleone Bonaparte.

Il Manzoni che non ha mai esaltato né vituperato Napoleone quando era vivo, si fa interprete, ora che è morto, della generale commozione e ne ripercorre le fasi frenetiche dell’ascesa, della grandezza e della sconfitta. Nella solitudine di Sant’Elena, il ricordo della passata grandezza e l’umiliazione della prigionia lo avrebbero fatto piombare nella disperazione, se egli non avesse trovato rifugio e conforto nella fede in Dio. Alla luce della fede, a Napoleone si schiarì l’oscuro destino della sua vita, che è poi quello di ogni uomo sulla terra. Ogni uomo, infatti, sia quello di eccezione, in cui sembra che Dio abbia impresso un segno più grande del suo spirito creatore, sia quello umile e modesto, vive assolvendo il compito che Dio gli assegna.

Napoleone fu sotto tanti aspetti uno strumento della Provvidenza nell’evoluzione della storia europea, che sotto il suo impulso si scrollò di dosso le vecchie strutture feudali e si avviò alla vita moderna. Ma egli per orgoglio ed egoismo, spesso trascese il fine assegnatogli e pagò con la sconfitta e l’esilio i suoi errori. La fede ritrovata non solo gli fece comprendere le contraddizioni della propria vita, ma gli diede conforto e sostegno e l’avviò, pei floridi sentier della speranza, al premio della beatitudine eterna.

L’ispirazione dell’ode, pertanto, non è come afferma la critica romantica epico-drammatica, anzi è soprattutto religiosa, analoga a quella del coro di Ermengarda. Napoleone ed Ermengarda soggiacciono allo stesso doloroso destino, riconoscono umilmente l’azione purificatrice e plasmatrice della provvida sventura, sono entrambi spiriti eletti, toccati dalla Grazia e trovano oltre la morte il premio che supera tutti i desideri umani., l’appagamento cioè dell’ansia d’infinito che ci travaglia in terra.

 

 

Alessandro Manzoni, come Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi, ebbe una concezione dolorosa della vita. Il suo pessimismo però non è di natura filosofica, come quello di Foscolo e di Leopardi. Il pessimismo di Foscolo e Leopardi, infatti, scaturisce dal contrasto tra la concezione materialistica della realtà e la reazione del sentimento, che si sente frustato nella sua ansia di assoluto, di infinito e di eterno. Quando essi cercano di scoprire la causa del dolore e dell’infelicità umana, eludono la responsabilità individuale ed incolpano la natura, perché ha creato l’uomo bramoso di felicità pur sapendo che essa non verrà mai conquistata.

Il pessimismo del Manzoni, invece, è di natura morale, perché coinvolge la responsabilità individuale dell’uomo, il quale pur comprendendo la negatività del dolore e del male, ama causarli agli altri per egoismo, nella speranza di allontanarli da sé. La storia è una rassegna interminabile di oppressioni, di soprusi, di violenze e di ingiustizie che genera nell’animo del poeta un profondo pessimismo.

Il pessimismo non dura a lungo, perché il Manzoni si libera gradatamente da esso, aiutato dalla concezione cristiana della vita, secondo la quale il bene e il male coesistono nell’animo umano.

La natura umana pura e perfetta al momento della creazione, in seguito al peccato originale divenne fragile e debole, esposta alle passioni; ma la natura umana è anche ansiosa per il senso innato della propria dignità, di ristabilire dentro di sé l’armonia perduta, la purezza originaria, che si può raggiungere con i frutti della Redenzione.

La redenzione dal peccato, infatti, ottenuta da Cristo col sacrificio della Croce sul Calvario, continua ad operare nella vita e nella storia. Non a caso, di tutti i misteri della fede cristiana, il Manzoni diede importanza soprattutto alla Redenzione, da lui considerata come il momento fondamentale della storia umana perché il divino discende e si confonde con l’uomo, illuminandolo, purificandolo e fortificandolo.

Prima della Redenzione il mondo era in balìa dei malvagi e dei violenti, oppressori degli umili e dei deboli, i quali vivevano senza conforto, senza libertà e senza pace. Dopo la Redenzione, rimangono sempre fra gli uomini i malvagi e i violenti, ma intanto gli umili e i deboli hanno la consolazione della fede, la certezza della giustizia di Dio e la speranza del suo premio. Ed anche per i malvagi e i violenti c’è la possibilità di ascoltare la voce di Dio, di convertirsi e di salvarsi. Perciò la vita dell’uomo sulla terra è una milizia, un impegno a combattere per vincere il male che si annida in noi e il male che opprime il mondo.

Da ciò deriva il carattere particolare del cristianesimo manzoniano: un cristianesimo attivo, caratterizzato da un grande rigore morale, che, mentre prepara alla beatitudine nell’altra vita, impegna costantemente il credente: sul piano morale nella scelta continua tra il bene e il male e sul piano politico nella lotta per la libertà e la giustizia su questa terra.

 

Come si colloca il Manzoni nel Romanticismo?

Fu proprio il Manzoni ad imprimere al Romanticismo italiano quel carattere moderato, equilibrato, educativo, morale, patriottico e civile, che lo distingue dai contemporanei Romanticismi europei.

Egli, infatti, rifiutò dal Romanticismo europeo i due princìpi più rivoluzionari:

-l’assoluta libertà di ispirazione della poesia e dell’arte

-la supremazia del sentimento e della fantasia sulle altre facoltà dello spirito.

Secondo il Manzoni, invece, la poesia e l’arte devono ispirarsi alle idee morali e religiose se vogliono continuare ad assolvere nella società quella funzione di educazione e di elevazione spirituale che ebbero in ogni tempo; il sentimento e la fantasia devono essere sempre frenati e guidati dall’intelletto e dalla volontà, poiché abbandonati a stessi degenerano in sentimentalismi e fantasticherie vuote ed inconcludenti.

 

In che modo, allora, il Manzoni rientra nel Romanticismo?

Romantica è la sua concezione della poesia come rappresentazione del vero, che porta al rifiuto della mitologia e delle regole della poetica classicistica.

Romantica è la sua soluzione alla questione della lingua, che deve essere chiara, semplice, moderna, accessibile a tutti, popolare.

Romantiche sono le sue idee politiche e sociali, perché egli propugna l’ideale di una patria libera ed indipendente, ed eleva per la prima volta a protagonisti di un’opera d’arte gli umili, dotati di una insospettata ricchezza interiore

Romantica è, del resto, al sua stessa concezione della vita.

 

Lo Svolgimento della religiosità manzoniana

Nella religiosità del Manzoni dobbiamo distinguere tre momenti, quali ci appaiono riflessi nelle sue opere:

il primo momento è quello del cristianesimo celebrativo, rappresentato poeticamente negli Inni sacri minori (Risurrezione, Il nome di Maria, Natale, Passione), quando l’ardore del neofita, rinato a nuova vita, quindi, persona recentemente convertita al Cristianesimo, porta il Manzoni a celebrare le feste liturgiche della Chiesa e a rilevare soprattutto il loro significato teologico, dando scarso rilievo ai riflessi umani e storici della REDENZIONE;

il secondo momento è quello del cristianesimo elegiaco o della Grazia, quando la meditazione sugli orrori della storia, dominata dalla violenza, porta il Manzoni alla totale condanna di essa, ad una visione pessimistica della vita e alla sfiducia nella lotta per un mondo migliore. Questo momento è espresso poeticamente nelle Tragedie, i cui protagonisti – il Conte di Carmagnola, Adelchi ed Ermengarda – sono le vittime innocenti della malvagità e della violenza: purificati e santificati dalla sofferenza e dalla Grazia, essi si allontanano con orrore dal mondo, trovando la pace solo nella morte e ricevendo nell’altra vita il premio riservato ai giusti;

il terzo momento è quello del cristianesimo agonistico o dell’ottimismo cristiano, che vede la presenza del divino nell’uomo e impegna il credente a collaborare con Dio, per instaurare anche nella vita terrena il regno della libertà e della giustizia. Questo momento è rappresentato poeticamente nella Pentecoste, nelle Odi civili e soprattutto nei Promessi Sposi, dove gli umili non subiscono passivamente la violenza, ma reagiscono ad essa, sorretti dalla coscienza dei loro diritti e dalla fede nella Provvidenza e nella giustizia di Dio.

 

Manzoni e l’Illuminismo, Manzoni e il cattolicesimo liberale

L’Illuminismo, sul quale si formò negli anni giovanili, lasciò una traccia profonda nello spirito e nella cultura del Manzoni. Da esso, infatti, il Manzoni derivò i principi di libertà, di uguaglianza, di giustizia e di progresso, soprattutto il concetto di LETTERATURA-AZIONE, intesa cioè come promotrice di educazione morale e di elevazione spirituale dei popoli.

Quando Manzoni si convertì, dopo anni di meditazione, egli non modificò le idee politiche e sociali apprese dall’illuminismo, anzi conferì loro una base religiosa e una forza di convinzione più profonda. Si accorse, infatti, che esse non solo non contrastavano con la fede, ma anzi dalla fede traevano un impulso più vigoroso, in quanto la religione cristiana impone il rispetto e l’amore per il prossimo (persino dei propri nemici!) ed auspica la fratellanza universale, perché tutti gli uomini sono creature di Dio e godono dei frutti della Redenzione. Cristo infatti morì sulla croce per redimere dal peccato tutti gli uomini, senza alcuna distinzione, né tra gli individui né tra i popoli, né tra le razze. Ogni uomo, anche il più umile, vale il sangue di Cristo e offenderlo vuol dire offendere l’immagine stessa di Dio.

Il Manzoni pertanto non ritenne affatto contrastanti con gli insegnamenti del Vangelo i princìpi fondamentali della democrazia liberale. Il Cristianesimo autentico è religione di libertà, perché fondato sul rispetto della persona umana e dei suoi inalienabili diritti; per sua natura quindi si pone antagonista di ogni tirannide sia interna che esterna. Ogni forma di tirannide che calpesti i diritti umani, politici e civili, è di per sé anticristiana e va combattuta e rovesciata. Le lotte combattute dai popoli per l’indipendenza e dalle classi umili per la conquista dei diritti umani, sono lotte legittime, che dovrebbero vedere impegnati in prima linea tutti i cristiani, se comprendessero l’essenza stessa del Cristianesimo, che è religione di libertà.

Come Cattolico liberale, il Manzoni ritenne che la Chiesa del suo tempo non poteva allearsi con i monarchi assoluti nella lotta contro il liberalismo senza tradire i princìpi fondamentali di libertà e giustizia della sua dottrina; anzi rinunziando al potere temporale, avrebbe potuto riacquistare agli occhi degli uomini il prestigio e l’autorità di un tempo. Condannando il potere temporale della Chiesa, Manzoni veniva a trovarsi sulla linea della tradizione culturale italiana, da Dante a Machiavelli, dal Sarpi al Mazzini, fino al Cavour di <<Libera Chiesa in Libero Stato>>.

Per aver tenuto nettamente distinto il problema politico da quello religioso, il Manzoni poté essere liberale e democratico in politica e al tempo stesso buon credente nella religione.

 

Manzoni e il Risorgimento

Il Manzoni, per la sua indole timida e riservata, non partecipò direttamente alle lotte del risorgimento, ma si limitò ad esortare gli Italiani, mediante gli scritti, a combattere per la libertà e l’indipendenza della patria. Di questa sorta di contraddizione tra il pensiero e l’azione era consapevole lo stesso Manzoni. Infatti, quando a Milano, dopo l’Unità, ricevette la visita di Giuseppe Garibaldi, gli disse che egli, convinto come il Mazzini che al pensiero debba corrispondere anche l’azione, si sentiva inferiore all’ultimo dei garibaldini per non aver preso parte direttamente alle lotte del Risorgimento.

Ma i grandi avvenimenti della storia sono stati sempre preparati dagli scritti dei poeti e dei pensatori. Non si sarebbe avuta la rivoluzione francese, dalla quale è sorta l’Europa moderna, senza le opere dei pensatori illuministi. Ciò era stato intuito assai bene dall’Alfieri, quando scrisse che <<il dire altamente alte cose è farle in gran parte>>.

Il Manzoni rientra, dunque, di diritto nel quadro della letteratura del Risorgimento, sia direttamente con opere di ispirazione patriottica e civile, come l’ode Marzo 1821, il coro del Carmagnola e il primo coro dell’Adelchi, sia indirettamente con gli scritti e le altre opere dottrinali, per la grande influenza che queste esercitarono sulla cultura italiana del periodo.

Manzoni si ricollega ad altri poeti patrioti ma possiede una propria inconfondibile fisionomia. Mentre le poesie patriottiche del Risorgimento hanno spesso un tono polemico, aspro, violento e fremono di odio contro gli oppositori della patria, nelle poesie del Manzoni non c’è una sola parola di odio o di vendetta, ma la compostezza e la moderazione di un animo cristiano e virile, che parla alla ragione e al sentimento di tutti i popoli civili e degli stessi oppressori, per perorare la causa della libertà della patria.

Il contributo più alto dato dal Manzoni al Risorgimento fu, in ogni caso, la creazione di una prosa nuova, agile, semplice e popolare, che facilitò l’unificazione spirituale e culturale della nazione.

 

La poetica di Alessandro Manzoni

La poetica del Manzoni è incentrata sul principio romantico dell’arte come rappresentazione del vero ed è pertanto alla base del filone realistico-oggettivo del Romanticismo italiano. È una poetica coerente ed organica con la concezione cristiana della vita che egli ebbe.

La poetica del Manzoni è esplicata nella Prefazione al Conte di Carmagnola, nella Lettera a Monsieur Chauvet e nella lettera Sul Romanticismo scritta al Marchese Cesare D’Azeglio (padre di Massimo D’Azeglio).

Nella Prefazione al Conte di Carmagnola il Manzoni rifiuta le unità pseudoaristoteliche di luogo e di tempo della tragedia; ammette solo l’unità di azione, ma la intende non nel senso di unicità, ossia come rappresentazione di un fatto unico ed isolato, ma nel senso di un complesso organico di avvenimenti, di un “pezzo di storia”, come sostiene Sansone (critico letterario) in sé concluso.

Il Manzoni evidenzia poi il carattere particolare dei cori da lui introdotti nella tragedia. A differenza dei cori del teatro greco, che erano parte integrante dell’azione, i cori manzoniani sono come squarci lirici, un cantuccio, come egli dice, in cui esprime il suo sentimento in un momento culminante della storia. Essi si possono quindi anche eliminare senza che l’azione ne risenta.

Il Manzoni, infine, affronta il problema della moralità dell’arte drammatica, respingendo le accuse dei Padri della Chiesa e di tanti scrittori cattolici, i quali condannarono il teatro e il romanzo come causa di corruzione dei costumi. Manzoni, ritiene, invece, che l’arte in genere –   e quindi anche la poesia drammatica ed il romanzo – se ha un contenuto umano, religioso e morale, lungi dal corrompere, può essere strumento di educazione e di elevazione morale per il popolo.

Nella Lettera a Monsieur Chauvet (un classicista francese che lo aveva critica perché non aveva rispettato nella tragedia le tre unità pseudoartistoteliche di tempo, di luogo e di azione), il Manzoni risponde che le tre unità, oltre ad essere un impaccio dannoso all’ispirazione, sono contrarie alla verità dei fatti che il poeta deve rispettare. Egli prende spunto da questo dovere di rispettare la verità dei fatti, per parlare del rapporto tra storia e poesia. Storia e poesia hanno un comune oggetto di osservazione e di rappresentazione: il vero, cioè il reale accadimento dei fatti, ma lo trattano in modo diverso. La storia indaga criticamente i fatti, studiandone le cause, lo svolgimento e gli effetti, e, non si cura dei sentimenti con cui i protagonisti e i popoli hanno vissuto quei fatti. La poesia, invece, integra la storia, cercando di interpretare, sullo sfondo del vero storico, il verosimile psicologico e sociale, ossia i sentimenti con cui gli individui e i popoli hanno vissuto gli avvenimenti della storia. La poesia, però, integra la storia anche dal punto di vista religioso e morale, perché mette in evidenza il divino, cioè la Provvidenza che opera nella coscienza individuale e nella collettività storica. In questa fase della poetica manzoniana, il vero della storia e il verosimile (o l’invenzione) della poesia hanno pari dignità e sono tra loro in rapporto di reciproca integrazione: proprio alla luce di questa poetica il Manzoni compose i suoi capolavori: gli Inni Sacri, le Tragedie, I Promessi Sposi, segnando una vera e propria svolta nella tradizione culturale italiana. La poesia del Manzoni, infatti, non è di tipo petrarchesco, egocentrica, aristocratica, idilliaca, elegiaca come quasi tutta la poesia italiana dal Petrarca al Leopardi, ma è una poesia oggettiva, positiva, democratica, nel senso che al centro di essa non c’è l’io lirico solitario ed individualistico del poeta, ma gli uomini stessi, colti nella realtà concreta degli avvenimenti storici, nella loro condizione di miseria e di grandezza, di dolore e di consolazione, di peccato e di redenzione.

La poetica del Manzoni si precisa ancora di più nella lettera Sul Romanticismo scritta al marchese Cesare D’Azeglio, che, pur ammirando la poesia del Manzoni, aveva dichiarato di non condividere le teorie romantiche seguite dal poeta. Il Manzoni risponde prendendo le difese del Romanticismo.

Nella prima parte della lettera elenca ciò che il Romanticismo rifiuta della vecchia poetica classicistica, cioè l’uso della mitologia, le regole della retorica e dei generi letterari, l’imitazione servile dei classici: tutti elementi nocivi alla sincerità dei sentimenti. Al rifiuto della mitologia il Manzoni perviene anche attraverso una motivazione morale. La mitologia classica, egli dice, è tutta imbevuta della morale edonistica pagana, la quale esaltava quei beni terreni, passioni e piaceri, che la morale cristiana invece svaluta e rifiuta. Continuare ad usare la mitologia nelle opere letterarie significherebbe mantenere vive le idee della morale pagana.

Nella seconda parte della lettera il Manzoni formula il principio fondamentale della sua poetica: la poesia e la letteratura in generale deve proporsi l’utile per scopo, il vero per oggetto e l’interessante per mezzo.

L’utile per scopo significa che la poesia deve mirare ad educare e ad elevare spiritualmente l’uomo singolo e il popolo. Essa raggiunge questo nobile fine specialmente quando evidenzia la presenza vigile e operosa della Provvidenza nella storia.

Il vero per oggetto significa che la poesia deve trattare il vero storico, ma non nella crudezza cronachistica e critica degli avvenimenti – il che è compito della storia – bensì integrato e arricchito dal vero psicologico, sociale e religioso.

L’interessante per mezzo significa che l’argomento della poesia deve essere attuale, moderno, popolare, di largo interesse generale e non individuale o personale.

Nel 1870, Manzoni ridusse il principio formulato tuttavia al solo vero per oggetto: tutto ciò che è vero, è anche utile ed interessante.

 

Nel Discorso sul romanzo storico, pubblicato nel 1845, dopo i Promessi Sposi, Manzoni torna a meditare sul rapporto tra storia e poesia concludendo che il vero autentico è quello storico, al quale nulla può aggiungere la fantasia del poeta, che anzi rischia di deformare la verità dei fatti. Quello che era un rapporto di reciproca integrazione tra storia e poesia, ora gli appare un rapporto di opposizione ed incompatibilità. Il romanzo storico è un’opera fallita, un ibrido, che si risolve in un tentativo goffo e presuntuoso, di darci, mediante un’assurda mescolanza di storia e di invenzione, una rappresentazione della realtà più completa di quella offerta dalla storia. Giunto a questa fase involutiva della sua poetica, il Manzoni rinunciò alla poesia e si dedicò alla composizione di opere storiche e dottrinali.

Separando il vero storico dal verosimile, la storia quindi dalla poesia, egli intuì la diversità della poesia, ma non giunse ad intuire l’autonomia della poesia, il cui vero fantastico, se è radicato profondamente nell’umanità del poeta e nella sua cultura, non ha minore verità del vero positivo della storia: non a caso Engels, parlando di Balzac, potrà dire di aver imparato a conoscere la Francia dai romanzi di Balzac più che dalle opere degli storici, degli economisti e degli statisti messi insieme.

 

 

La questione della Lingua e la teoria manzoniana

Una svolta importante si ebbe con Alessandro Manzoni, che affrontò la questione della lingua in un primo tempo per ragioni artistiche e religiose, poi per ragioni civili e patriottiche.

Accingendosi a scrivere I Promessi Sposi, egli si pose subito il problema di un linguaggio che fosse in armonia con la sua poetica, la quale, facendo dell’opera d’arte un mezzo di elevazione morale e di apostolato delle verità cristiane, esigeva l’uso di un linguaggio chiaro, semplice, facile, accessibile a tutti.

Le ragioni civili e patriottiche subentrarono in un secondo tempo, quando via via che si realizzava l’unità d’Italia, egli pensò ad una lingua comune, unica, unificante, che favorisse l’unità spirituale degli Italiani. Ponendosi tale problema, il Manzoni faceva un confronto tra gli Italiani e gli altri popoli. Egli notava, per esempio, che mentre nella Spagna, in Francia, in Inghilterra, la lingua letteraria era assai vicina a quella parlata, invece, in Italia, c’era, fra esse, una diversità abissale.

Considerando poi la lingua scritta degli Italiani, il Manzoni notava che essa era antiquata, aulica, dotta, retorica, difficile ed incomprensibile per gli ignoranti. Lo scrittore era perciò condannato o ad usare una lingua vicina a quella parlata, per essere vivace e moderno, rischiando però di dare un’impronta dialettale alla sua opera e di confinarla nell’ambito della sua regione, oppure ad usare la lingua letteraria della tradizione, col rischio però di vedere la sua opera compresa dai dotti delle varie regioni italiane, ma naturalmente ignorata dal popolo.

Occorreva perciò una lingua che fosse nello stesso tempo moderna ed unitaria: per essere moderna, occorreva che fosse una lingua parlata, per essere unitaria era opportuno scegliere e avere come modello una particolare lingua parlata. Per il Manzoni la lingua unitaria degli Italiani doveva essere il fiorentino: non quello scritto della tradizione letteraria, caro ai puristi, ma quello parlato dalle persone colte di Firenze, nei bisogni della vita pratica.

Il Manzoni mise in pratica la sua teoria con intelligenza e moderazione, accogliendo nella sua prosa, quando era necessario ai fini della precisione e della chiarezza, anche termini non fiorentini, ricavati dalla tradizione culturale italiana e straniera.

Agli studiosi moderni la teoria manzoniana è apparsa angusta, perché impone un modello al quale uniformarsi. Così il Manzoni stesso arriva all’assurdo di far parlare i più umili dei suoi personaggi non secondo la lingua popolare lombarda, ma secondo la lingua popolare toscana, per cui è stato detto che sarebbe stato più naturale risciacquare i panni nell’Adda, piuttosto che nell’Arno.

 

 

 

Le Opere di Alessandro Manzoni

Le opere giovanili, a prima della conversione, comprendono alcune liriche che successivamente Alessandro Manzoni ripudiò ritenendole lontane dal nuovo, più severo, concetto di poesia maturatosi dopo il 1810. Tra queste si ricordano: il trionfo della libertà, Adda, i Sermoni, Urania.

Soltanto il carme In morte di Carlo Imbonati, in endecasillabi sciolti, desta un maggiore interesse. Il poeta immagina che Carlo Imbonati, l’amico della madre, da poco morto gli appaia in sogno e gli dia utili ammaestramenti per l’avvenire. Lo esorta infatti a conservare pura la mano e la mente, a non farsi mai servo di nessuno, a non tradire mai la verità, a non pronunziare mai una parola che plauda al vizio e derida la virtù. Sono parole che riassumono il programma di un severo impegno morale e letterario a cui Manzoni restò sempre fedele.

Le opere posteriori alla conversione, 1810, rivelano il profondo mutamento spirituale avvenuto nel Manzoni. Esse sono: gli Inni sacri, le Odi civili, i cori delle tragedie, le tragedie e i Promessi Sposi.

 

 

Concetti manzoniani: Divina Provvidenza, Provvida sventura

Divina Provvidenza: Tra le opere del Manzoni appartenenti al periodo post-conversione, vi sono proprio i Promessi Sposi. Qui il tema centrale può essere individuato nella prospettiva religiosa: il tutto ruota intorno alla giustizia vissuta non come questione sociale, ma come individuale ricerca del bene di fronte ai condizionamenti negativi della società.

Ed è qui che si propone l’enigma della Divina Provvidenza con la quale l’autore affronta, ma non spiega, il mistero del dolore: è la Grazia che nel mondo aiuta a superarlo. La provvidenza è dunque, in un certo qual modo, la conferma dell’aiuto divino, che spinge ad avere coraggio sempre e comunque.

I personaggi del romanzo sui quali la Divina Provvidenza agisce maggiormente:

  • Renzo, il quale, dopo aver assistito alla vicenda rivoltosa di Milano, è condotto verso le rive del fiume Adda, proprio dall’intervento provvidenziale. Il confine geografico tra il ducato di Milano e quello di Venezia, nella vicenda del personaggio, è metaforicamente confine tra ingiustizia e giustizia.
  • Lucia, alla quale si presenta la provvidenza nel momento in cui deve lasciare a malincuore il suo paese. Non si dà per vinta ma si affiderà completamente nelle mani di Dio.
  • L’Innominato, la cui conversione è da considerarsi l’evento provvidenziale per eccellenza. Lucia, una volta rapita per ordine dell’Innominato, viene portata al suo castello, dove, con i suoi modi angelici, scatenerà un forte turbamento nel suo animo crudele, confusione che ad un certo punto lo porterà a convertirsi e a passare dalla parte dei più deboli.

Anche se nel romanzo lo sviluppo degli eventi è per lo più tragico e drammatico, il filo conduttore dell’opera sembra lasciar intuire ai lettori che tutto alla fine si concluderà bene. Il filo conduttore può essere rintracciato proprio nella Divina Provvidenza, che non si spezza mai, perché lassù c’è sempre qualcuno che la rafforza. Ma non basta fare il bene, perché il male è presente nella natura stessa della storia e dell’uomo, e ciò comporta dolore. La fede sarà però mezzo per far divenire il dolore qualcosa di buono, un impegno contro le insidie e l’egoismo degli uomini e della natura.

 

Provvida sventura:      il dolore cioè permesso dalla Provvidenza a fin di bene, che è il tema fondamentale del secondo coro dell’Adelchi.

 

Le tragedie sono: il Conte di Camagnola e l’Adelchi

Le Odi civili sono: Marzo 1821 e Il Cinque Maggio

 

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